Il tasso di disoccupazione in Italia è ai minimi dal 2008, ma c’è un aumento del tasso di vacanza lavorativa e un mismatch tra domanda e offerta di lavoratori. Le imprese hanno difficoltà nel reclutamento a causa delle discrepanze nelle competenze e nella collocazione geografica dei lavoratori disponibili. Fin dall’inizio della pandemia si sono presentate le gravi contraddizioni del mercato del lavoro italiano: una domanda sostenuta in pressoché tutti i settori merceologici ha trainato le imprese che hanno dovuto inserire manodopera come non facevano da decenni. Quasi subito, si è constatato quel che ora non solamente è misurabile, ma oggi si riesce ad avere una proiezione del futuro prossimo.
A fronte di un abbassamento dei tassi di disoccupazione, si affiancherà un disallineamento dei percorsi di istruzione e formazione rispetto alla possibile occupabilità.
La mancanza di manodopera per oltre un terzo delle cooperative è il primo problema per lo sviluppo aziendale, ben davanti ai costi delle materie prime e persino all’accesso al credito; in alcuni settori e territori questa percentuale lambisce il sessanta per cento. Di fronte a questa situazione occorre innanzitutto un cambio generalizzato di mentalità: istruzione, formazione, politiche attive del lavoro in questa fase sono la soluzione sia ai problemi delle persone sia del sistema produttivo. Un Paese che spreca le proprie risorse perché non trova il modo di valorizzarle nel posto giusto, evidentemente non funziona.
È necessario potenziare le istituzioni preposte a favorire l’incontro tra domanda e offerta e implementare politiche di re-skilling, ridurre il gender gap e il numero di NEET.
Il calo di oltre 2 punti percentuali del tasso di disoccupazione registrato tra il primo trimestre 2020 e il secondo trimestre 2024 (dal 9,1% al 6,9%), segnando il livello più basso da luglio 2008, ed il concomitante aumento del tasso di vacancy (quasi triplicato, passando da 0,6% a 1,7%), indicano la presenza di un disequilibrio tra domanda e offerta.
Su quest’ultima esercita una forte pressione, destinata a proseguire nei prossimi anni, il processo di transizione demografica che l’Italia sta attraversando. Tra il 2023 e il 2030, la popolazione totale diminuirà di 805mila unità e si accentuerà la ricollocazione tra classi di età: gli individui con almeno 65 anni di età aumenteranno di circa 1,5 milioni di unità, mentre quelli in età lavorativa (15-64 anni) diminuiranno per un ammontare pressoché corrispondente. Una pressione aggiuntiva è quella esercitata dal pensionamento dei baby boomers, destinata a crescere nei prossimi anni.
Il risultato di questa dinamica sarà ben rappresentato dalla differenza tra il numero delle nuove entrate e il numero delle uscite dal mercato del lavoro.
Una analisi stima che da qui al 2030 ci sarà un deficit annuo nell’ordine di 150mila lavoratori, per il 70% rappresentato da maschi, tra flussi in entrata pari ad oltre 450mila unità e flussi in uscita crescenti, in media superiori alle 600mila unità.
Che il fenomeno sia già in atto è dimostrato in modo evidente dalle crescenti difficoltà delle imprese a reclutare lavoratori. Nel 2023, il 40% delle imprese nel settore dei servizi e il 9% delle imprese nel settore manifatturiero segnalava la mancanza di lavoratori come un ostacolo alla produzione. Il tasso di posti vacanti è in crescita dal 2013.
Il trend della domanda di lavoratori a basso livello di istruzione, però, ha cominciato a crescere più rapidamente rispetto al trend della domanda di lavoratori con livelli di istruzione più elevati.
Lo scorso anno il 45% delle posizioni pianificate era difficile da reclutare, anche qui con differenze per livello di istruzione. Per i lavoratori a basso livello di istruzione, il problema è di numerosità. Questi lavoratori costituiscono più del 50% della domanda, che è cresciuta molto negli ultimi anni. Al contrario, l’offerta non riesce a tenere il passo della domanda, anche a causa della transizione demografica.
Per i lavoratori ad alto livello di istruzione, il problema è in un disallineamento tra la loro specializzazione e quella richiesta dal mercato del lavoro. Ad esempio, se per discipline economiche, ingegneria e architettura, scienze dell’educazione l’offerta di nuovi laureati non riesce a coprire la domanda, per medicina e farmacia il deficit è quasi nullo, mentre il rapporto si inverte, per le altre discipline: umanistiche, scienze politiche e sociali e lingue straniere (con un’offerta che è quasi il triplo della domanda), oppure psicologia ( dove l’offerta è quasi quadrupla rispetto alla domanda).
La transizione demografica in corso in Italia porterà a un deficit annuo di 150mila lavoratori fino al 2030, con lavoratori ad alto e basso livello di istruzione che presentano diversi problemi di occupabilità. È importante utilizzare in modo efficiente la vasta disponibilità di forza lavoro potenziale, offrendo programmi di re-skilling e facilitando i movimenti tra regioni per riallocare la domanda di lavoro. L’Italia ha una delle più alte percentuali di NEET in Europa, con l’11.7% solo in Friuli Venezia Giulia e Lombardia inferiore alla media europea del 21.25%.
Di Macina Luca – Iscritto all’albo unico dei “Consulenti Finanziari – OFC – Regione Piemonte”